Si gioca già nel grembo materno.
Ci si dimena, ci si muove, ci si gira e ci si rigira perché il gioco è vitalità.
E si continua a giocare appena nati.
Si urla mentre gli occhi roteano e non si fermano, le braccia fanno a gara, le gambe sembrano pendoli continui.
Si gioca sia tra le braccia che a terra.
Perché il gioco è l’espressione autentica di identità, personalità, libertà.
Giocare è una virtù perché attraverso il gioco si impara a essere se stessi, a stare insieme agli altri, a capire che ci sono delle regole da rispettare.
E ci si emoziona in ogni dove e in ogni modo.
Che sia un pallone gonfio o sgonfio, che sia una pallina da tennis o un pallone da rugby, che sia un rincorrersi per acchiapparsi o per nascondersi, che sia “un, due, tre stella…” o il “campanaro”, che sia una bambola di stoffa o delle pezze colorate.
Si gioca e ci si entusiasma e si cresce e si impara.
Si cade e ci si rialza pure.
Giocare è divenire.
Civiltà.
Sì, giocare è la primordiale espressione di civiltà – sin dal grembo – perché significa essere ed esserci.
Il gioco necessita per l’evoluzione socio-psico-pedagogica dei neonati, fanciulli, adolescenti, maggiorenni.
Il gioco non è far male, bensì cercare un benessere che possa essere – anche – un sorriso, un semplice sorriso.
Il gioco è pure regole. Giusto.
Il gioco è, anche, buon costume. Giusto.
Il gioco è saper giocare? Può darsi.
Ma non si può vietare questo gioco. E non ci si può privare.
Perché questo gioco segna l’evoluzione di ogni individuo, l’espressione di ogni personalità, l’esercizio della libertà commisurata al grado di maturità.
Giocare è civiltà di vivere.
Anche responsabilità.
Ma non segregazione.