Come fossero bambole… di Antonio Belsito

Una bambola di stoffa, cucita artigianalmente.

Una bambola la cui identità non è ben visibile, seppur sia comprensibile si tratti di una bambola perché si distinguono la testa dal corpo e i capelli dal viso.

Una bambola rattoppata qua e là, ricavata da ritagli di stoffe – o meglio – da “pezze” multicolori; eppure, neanche i colori si distinguono facilmente perché imbrattata di fango e “spremuta” tra le mani.

Gli occhi delle bambine gioiscono nel vedere quel cumulo di stoffa che è la loro bambola: la tengono stretta al petto ancora ossuto e il loro volto ingenuo ne diventa l’espressività.
Quelle bambole sono la serenità di quella bambina, di quell’altra e di quell’altra ancora: sono uno sprazzo di colore tra il fango della fame e della sete.
Quelle bambole, però, sono anche la consapevolezza che quelle bambine sono ormai cresciute e sanno tenere una bambola stretta al “grembo”.

È l’ora.

Smaniak viene raggiunta dalla mamma mentre corre e rincorre le altre bambole, tenute da quelle bimbe come lei, scure quanto il fango ma sorridenti quanto l’amore di poter avere una bambola.

Sì, una bambola.

Ora è un cerchio, ora è una fila, ora è un saltello, ora sembra un ballo: la piazzetta del villaggio sembra invasa da farfalle mentre il fango schizza, accarezzando il volto della leggiadria.
Ora, Smaniak con una mano stringe la bambola al petto e con l’altra stringe la mano dell’altra bimba; ballano, sembrano anche intonare un canto, volano insieme mentre il vento ne accarezza i capelli spettinati.
Smaniak viene afferrata per un braccio dalla mamma, si gira e i suoi “occhietti” si riflettono negli “occhioni” materni: quegli “occhietti” lucidi sono la voglia di giocare ancora, di ballare ancora, di poter guardare ancora quella bambola.
Smaniak tiene stretta la mano dell’altra bimba come fossero incollate, come fosse la sua àncora, come se volesse che quella bimba – come la sua bambola – le facesse coraggio. Ma la mano di Smaniak libera la mano dell’altra bambina: si guardano, si fissano, si dicono.
È un istante, un fermo immagine: Smaniak stringe in una mano la bambola e nell’altra una mano bambina.
Ormai è di spalle, dinanzi a lei l’imponenza della mamma e un gruppetto di “omoni” che hanno un volto diverso dalle bambole; ma non solo il volto, anche le mani.
Smaniak sente quelle mani ruvide mentre la mamma annuisce con un cenno del capo; Smaniak stringe forte a sé quella bambola, con tutte le forze, con tutte le energie, con tutta l’anima.
Ora, la mamma sta lavando quella bimba, quella figlia, l’asciuga con un panno ruvido come le mani di quell’ “omone” e la veste di brillantini; sembra il luccichio di quelle stelle che Smaniak ama guardare – stesa a terra – con la sua bambola, sembra la luce di quella luna che Smaniak ha voglia di raggiungere con gli occhi aperti come due finestre.
Intanto, la bambola è buttata lì – per terra – ma Smaniak non la perde mai di vista, la cerca con lo sguardo, gira il capo, rende gli occhi quasi strabici; mentre la mamma le passa degli strani colori sul viso (sembrano erbe), Smaniak immagina di poter allungare il braccio per raggiungere quel cumulo di stoffe, quei colori che sono il suo sorriso.

Uno sguardo mamma / figlia;
uno sguardo mamma / “omone”;
uno sguardo figlia / bambola.

Quella bambola ha i colori di quelle mani che la stringevano forte al petto;
quella bambola ha gli occhi, il naso, le orecchie, di quella bimba che la riparava.

Quella bambola, forse…

Smaniak è pronta.

(Copyright2012)

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