Una bambina. Una scuola. E, anche, degli insegnanti.
Una bambina a scuola, figlia di una famiglia che (pare) non riesca a sostenere il costo della mensa.
Un sindaco e una società che gestisce la mensa.
Un sindaco e una società che (pare) si accordino per servire – alla bambina sfornita, purtroppo, di buoni pasto – una confezione di cracker e una scatoletta di tonno. Mentre agli altri bambini, seduti con lei, vengono servite pietanze calde ancora fumanti.
I genitori di questi ultimi, però, pagano i buoni mensa. Sono precisi. Puntuali. I genitori dell’altra, invece, sembra non vogliano neanche lavorare per i servizi sociali. Ciò fa intendere il sindaco.
Eppure, una bambina è una bambina.
Tutti noi lo siamo stati, no, bambini?
E non è difficile immedesimarsi, giusto?
Mi immedesimo.
Questa bambina accorgendosi dei pasti serviti agli altri, china la testa e inizia a lacrimare (senza nulla pretendere!).
Non piange perché ha vergogna di disturbare gli altri che si apprestano a gustare quei cibi caldi; lacrima solo. E queste lacrime scorrono sul suo visino ancora bambino.
Mentre lacrima, le sue manine aprono, tremanti, la confezione di cracker. E, sempre a testa china, avvicina la scatoletta di tonno.
È una bambina. La vedete?
Con una sola confezione di cracker e una scatoletta di tonno. Mentre sente il profumo di cibi caldi per gli altri compagni.
È una bambina. Sì, di una famiglia. Ma in una scuola.
Sola.